Di bene e male: Il doppio femminile nel videogioco contemporaneo. Il caso Hellblade: Senua’s Sacrifice
Di solito non amo “riciclare” articoli, ma sto lavorando ad un progetto editoriale importante in questo ultimo anno che mi ha “costretto” a rimettere insieme molte mie produzioni del passato; compreso questo breve saggio che scrissi per “Leggendaria. Libri, letterature, linguaggi” nel maggio 2019. Il tema straordinario di quel numero 135, “Sul doppio”, è auto-esplicativo: una riflessione sul perché, a partire dalla tradizione orale e dalla letteratura, si è sempre fatta molta fatica a parlare di “doppi”, della coesistenza di bene e male, nei personaggi femminili. Viene da sé che la problematicità nel parlare di doppio nei personaggi femminili è sostanzialmente legato a doppio filo al tema della maternità, che è uno dei fattori che molto spesso impedisce a quelle figure narrative di poter covare (anche) al proprio interno un dualismo.
Per quel numero scelsi di parlare di Senua, la protagonista di “Hellblade: Senua’s Sacrifice” in quanto racchiude uno degli esempi più potenti nella rappresentazione nel doppio, nella dualità che coesiste in ogni essere umano – a prescindere dal loro genere.
Il titolo scelto e poi uscito sul numero di “Leggendaria” fu “Il lato oscuro di Senua, eroina dei videogiochi”, ma qui ho deciso di recuperare quello originale, che mi pare oggi più incisivo. Nel caso vogliate recuperare l’intero numero (che consiglio caldamente, perché ha analisi valide e interessanti anche a distanza di quasi 5 anni), la rivista è “Leggendaria. Libri, letterature, linguaggi”, n. 135 maggio 2019.
In principio è stata la ricerca di un doppio, un doppio digitale che fosse in grado di rappresentare la donna all’interno di un medium, il videogioco, che a partire dagli anni Ottanta ha assistito ad una profonda penetrazione nei nostri salotti. Oggetti del desiderio o trofei da conquistare, o semplicemente elementi estetici per appagare lo sguardo maschile, i personaggi femminili hanno avuto un ruolo molto marginale all’interno delle dinamiche narrative nei primi anni del videogioco, un aspetto che ha allontanato a lungo le donne (reali) dai suoi mondi digitali in quanto incapaci di trovare un “doppio” in cui identificarsi sullo schermo.
Ma c’è un motivo – anche e soprattutto di natura tecnica – dietro la scarsa presenza, per non dire assenza, di protagoniste femminili agli albori della storia del videogioco: la tecnologia alla base del medium dell’epoca era incapace di offrire forme narrative più complesse, oltre al fatto che l’uso di archetipi e strutture fiabesche – come quelli teorizzati da Vladimir Propp, Joseph Campbell e Christopher Voegl – fosse indispensabile per offrire un contesto narrativo al gameplay (un concetto di difficile classificazione e di costante dibattito all’interno del dibattito teorico dei game studies, ma che può essere inteso come il modo in cui i giocatori si relazionano al gioco e ne fanno esperienza anche in assenza di una reale sfida ludica), che fosse immediato e semplice. Infine, in questi primi anni di esistenza, la narrazione funge principalmente da pretesto all’azione e all’interazione, che invece svolgono un ruolo primario nell’esperienza videoludica, e dunque l’importanza dei suoi personaggi ai fini di un racconto più corposo e strutturato viene essenzialmente meno.
Bisogna attendere la metà degli anni Novanta del secolo scorso prima che le donne, e ancor più le giocatrici, trovassero un personaggio fatto di pixel che potesse rappresentarle e che, al contrario di chi le aveva precedute (con sola eccezione di Samus Aran, la protagonista della serie Metroid), fosse il vero motore narrativo delle loro avventure digitali. In un mondo sostanzialmente popolato da eroi macho bianchi ed eterosessuali nei videogiochi action di quegli anni (come ad esempio Doom e Quake, rispettivamente del 1993 e 1996), si fa largo Lara Croft, la protagonista di una serie diventata molto popolare nota come Tomb Raider. È molto probabile che molti ricorderanno Lara Croft nell’interpretazione offerta dall’attrice Angelina Jolie in una saga cinematografica omonima (Lara Croft: Tomb Raider, 2001; Tomb Raider – La culla della vita; 2003), ma la prima e originale Lara Croft muove i primi passi nel mondo dei videogiochi, grazie all’idea di uno studio di sviluppo britannico chiamato Core Design.
Correva l’anno 1996 e la società di produzione Eidos Interactive era pronta ad effettuare una svolta molto importante con Lara Croft, un’archeologa affermata e coraggiosa (una sorta di Indiana Jones al femminile), ma al tempo stesso la compagnia non è stata analogamente audace nel modellare le fattezze fisiche della sua eroina. Affidandosi ad un giovane character designer chiamato Toby Guard, Eidos e Core Design danno vita ad un personaggio che è più facile riconoscere come un “corpo in movimento” (una brillante definizione data al personaggio da due studiose, Giovanna Cosenza e Agata Meneghelli) volta ancora ad appagare lo sguardo maschile, anziché un personaggio che si distingue per la sua personalità. Per fare in modo che il pubblico di videogiocatori (in prevalenza maschile all’epoca) non venisse eccessivamente spiazzato dall’idea di “interpretare” una donna sullo schermo, Guard, infatti, tratteggiò Lara Croft con curve sinuose e prorompenti affinché i giocatori avessero “qualcosa da guardare” mentre sparavano a lupi feroci e scalavano alture per esplorare il mondo di gioco.
Quella che, ad oggi, sembra una pratica piuttosto riduttiva nel presentare un personaggio all’interno delle dinamiche narrative di un videogioco rappresenta, in realtà, un cambiamento importante: quello che fino ad allora era stato uno spazio riservato in esclusiva ai “maschi”, si apre per la prima volta alle donne, le quali, hanno finalmente una protagonista in cui riconoscersi – non tanto per la sua estrema e iper-sessualizzata fisionomia, quanto più per il suo essere una donna forte, coraggiosa, che non ha più bisogno di essere salvata. Eppure, nonostante gli abiti di Lara Croft continuassero a restringersi e le sue curve a pronunciarsi sempre più, il fenomeno a cui aveva dato vita la protagonista di Tomb Raider era oramai inarrestabile e, quello che viene definito un vero e proprio “Fenomeno Lara Croft”, apre le porte a sempre più eroine nel mondo dei videogiochi e alla conquista di una complessità emotiva e caratteriale, che è oggi uno dei caratteri fondanti del mezzo videoludico.
La stessa Lara Croft – nata come “bomba sexy”, al tempo stesso determinata e agguerrita – ha subito una metamorfosi molto importante nei suoi oltre vent’anni di storia, diventando un personaggio molto diverso rispetto a quello originale. Smessi gli abiti succinti e il suo sguardo ammiccante, la protagonista di Tomb Raider è oggi un’eroina a tutto tondo, che offre una rappresentazione della donna completamente diversa e diversificata rispetto al 1996. Il nuovo videogioco – in quanto prodotto culturale pienamente inserito nel dibattito sociale contemporaneo e non più solo come forma d’intrattenimento fine a se stessa – ha assistito ad un mutamento della rappresentazione femminile e della sua forma narrativa, in cui le numerose eroine di questi universi digitali (tra cui Aloy di Horizon: Zero Dawn, Max e Chloe di Life is Strange, o ancora Senua di Hellblade: Senua’s Sacrifice) sono passate dall’essere “donne oggetto” per compiacere uno sguardo maschile a “donne soggetto”. Inoltre, esattamente come avvenuto in altri media quali il cinema e la televisione, il videogioco ha abbracciato forme narrative complesse anche grazie ai cambiamenti tecnologici che ha assistito negli ultimi anni – un aspetto che ha permesso agli sviluppatori di dare vita ad uno storytelling più articolato anziché affidarsi agli archetipi come in passato – per cui gli stessi personaggi non sono più facilmente ascrivibili all’interno di categorie narrative ben precise.
Le attuali “donne videoludiche” sono personaggi caratterizzati da mille sfumature, che vivono molto spesso una dualità e una conflittualità interiore, che le porta ad essere inafferrabili ma, al tempo stesso, incredibilmente affascinanti e “vere”. Ad incarnare al meglio questo “doppio”, o meglio, questa “molteplicità” interiore delle eroine videoludiche contemporanee – ma che si rispecchia anche in un doppio esteriore, con cui entrano inevitabilmente in conflitto – è probabilmente la protagonista di Hellblade: Senua’s Sacrifice, l’eroina norrena Senua. Sviluppato da uno studio chiamato Ninja Theory, Hellblade: Senua’s Sacrifice segue le avventure di una guerriera pitta, Senua appunto, che ha intrapreso un viaggio verso l’Helheim (il Regno dei Morti secondo la mitologia norrena), per chiedere alla dea Hela di resuscitare il suo amato Dillion, morto durante un’invasione da parte dei Norreni.
Quello che sembra un canonico viaggio dell’eroe, dove però a vestire i panni della salvatrice è una giovane guerriera, si tramuta ben presto in un difficile viaggio interiore, in cui Senua – affetta da psicosi – si trova costretta a fare i conti con il suo passato e, in particolare, con la figura di suo padre, un druido profondamente religioso chiamato Zynbel. Incapace di comprendere la malattia mentale della figlia (di cui è affetta anche la moglie, la sacerdotessa Galena), ritenendola piuttosto una maledizione da parte degli dei, Zynbel viene spinto a sacrificare la moglie su una pira e a educare Senua con insegnamenti sempre più violenti, sia fisici che psicologici, per reprimerne quelli che lui considera poteri oscuri. Quando Senua conosce Dillion, un giovane ragazzo che sembra portare finalmente un po’ di luce in una vita fino ad allora costellata di sofferenze, decide di affrontare suo padre – che rappresenta anche il male e il dolore che la stanno consumando lentamente – e scappare via. Ma quella che sembra una breve pausa di serenità si trasforma presto in un incubo, che le strappa l’amore della sua vita dal mondo terreno, fino a trascinarla nuovamente nella follia.
Il racconto che si snoda all’interno di Hellblade: Senua’s Sacrifice è brutale, esattamente come la sua eroina: l’oscurità che la circonda, l’ombra soffocante che la insegue nel suo viaggio verso l’Helheim, rappresenta il passato dal quale prova a rifuggire, ma invano. Il finale amaro che accompagna le ultime sequenze di Hellblade, poco prima dei titoli di coda, è suggestivo quanto spiazzante: i giocatori sono costretti ad imbattersi in uno scontro finale con la dea Hela da cui Senua, suo malgrado, non ne uscirà vincitrice. Per quanto affondi la sua spada magica nell’evanescente e gigantesca ombra che continua ad attaccarla senza sosta, la guerriera è vittima, ma anche carnefice, della sua stessa follia. E infatti, l’unico modo per concludere il gioco è mollare il combattimento, e dunque soccombere all’oscurità, farla diventare parte di sé, fare in modo che quelle voci che tormentano Senua dal profondo prendano il sopravvento. Per trovare finalmente la pace.
L’accettazione del male e del dolore che sono parte della sua vita – incarnate rispettivamente dal padre e dalla madre, rappresentazione di metà della sua anima tormentata – così come della morte di Dillion, è il modo per Senua di prendere consapevolezza di sé, di rinascere. Imparando ad accettare quel lato oscuro della sua esistenza, che ha contribuito a forgiare l’eroina che è diventata in quel lungo e difficile percorso, la giovane si lascia alle spalle l’Helheim, pronta per quella che sarà la sua nuova vita d’ora in avanti. Più che eroina, Senua è un’antieroina, un personaggio che incarna l’imperfezione, portatrice di un’ambivalenza genitoriale, ma da cui prova a risorgere, proprio come una fenice. Lasciandosi alle spalle i suoi doppi o forse, più semplicemente, facendo pace con essi.