I Game Awards: come ti annichilisco il videogioco
La noia per il nulla. Un’apatia che pesa come un macigno generata da una cultura dell’hype che, ad oggi, è più ingombrante che mai. Oltre tre ore fiume di diretta per un palcoscenico egoriferito, dove più che dare spazio al videogioco si fa a gara ad accaparrarsi World Premiere e ospitate eccellenti. Ma, in fin dei conti, non ne esco così sorpresa: i Game Awards sono lo specchio di ciò che il videogioco è stato costretto a diventare negli ultimi anni, ossia uno strumento atto ad appagare la fame insaziabile di giocatori avidi, amanti delle abbuffate di cui, alla fine e nella maggior parte dei casi, non ricorderanno neanche il sapore.
Una sequela infinita di trailer, intervallata da momenti auto-referenziali di Geoff Keighley, a cui noi spettatori da casa siamo sottoposti quasi come in una Cura Lodovico in Arancia Meccanica: ingurgitiamo immagini di giochi per cui, boh, nella maggior parte dei casi non ci resterà che un vago ricordo, primi assaggi di titoli che non possono e non vogliono dirci nulla, ma di cui – per qualche ragione – sviluppiamo una necessità ossessiva di avere. Un po’ perché altrimenti rischiamo di restare fuori da quel chiacchiericcio social in cui sentiamo l’obbligo morale di essere parte attiva, un po’ perché il videogioco oggi è percepito sempre più come prodotto, alimentato da una comunicazione votata esclusivamente a diffondere la sua natura commerciale e sempre meno quella culturale (a parte poche straordinarie eccezioni).
Ne sono assuefatta e al tempo stesso nauseata. Faccio molta fatica, oggi, a riconoscermi in quel pubblico che si esalta davanti un singolo frame del nuovo gioco di un grandestudioacaso, non mi rivedo in quel pubblico che applaude come scimmie ammaestrate al logo di studiotaldeitali. Mi resta addosso poco o nulla di quello che vedo, nutro sempre meno interesse in quello che muove le fila di questo settore. Mi sento fuori luogo a celebrare il videogioco in pompa magna, quasi fossimo ad una serata degli Oscar, quando nelle ore appena precedenti alla kermesse vengono annunciati tagli di personale e licenziamenti in piccoli e grandi studi di sviluppo. Che cazzo ci sta succedendo? Siamo ottenebrati dai lustrini, dallo sfarzo, dal fottuto hype; siamo caduti in una trappola d’oro, di cui del videogioco in sé non ce ne frega più nulla. Arricchiamo librerie di grandi piattaforme, spendendo capitali, senza avere il tempo materiale per giocarli tutti. I famosi backlog ci che trasciniamo dietro con vergogna, con giochi che continuiamo ad accumulare come i tetramini del Tetris. Forse era questa la vera metafora del gioco di Aleksej Pažitnov?
Da questi Game Awards ne esco sconfitta, svilita, sopraffatta. Nonostante non siano mancati titoli per cui ho sentito davvero qualcosa – un po’ per affezione e un po’ per puro interesse personale – il resto dello show mi è scivolato addosso. Manca un’anima pura in queste rassegne, tutto è diventato inutilmente caotico, tutto è diventato esageratamente urlato. È come se avessimo tutti il dovere di applaudire, di entusiasmarci, di celebrare un’industria che sempre più ci vuole allineati, uniformati, omogenei. E con questo non intendo dire che dobbiamo smettere di goderci i grandi titoli, piantarla di attendere con genuino entusiasmo produzioni importanti; la mia non è e non vuole essere una crociata contro un’ampia fetta di videogiochi in favore di altri, ma piuttosto vuole esserlo nei confronti dei modi in cui il videogioco – soprattutto quello di largo consumo – è oramai comunicato da tanto, troppo tempo.
Ciò che voglio dire è: tiriamo il freno per un attimo, finiamola di alimentare e farci divorare al tempo stesso da un sistema che andrebbe stravolto dall’interno. Mi piacerebbe che il videogioco venisse nuovamente messo al centro di questi grandi eventi, e non che fosse l’evento in sé a diventare il centro gravitazionale di tutto. Non ho più voglia di guardare e subire, ma vorrei più tempo per osservare e immagazzinare. Vorrei più tempo per riflettere su quello che è diventata l’industria videoludica in sé, avere il modo di esplorare tutte le sue sfaccettature.
Ciò che è andato in scena ieri non mi piace più, non mi appartiene più.
O forse a non piacermi più è il sistema interno che ha annichilito il videogioco.
Poco alla volta.