«Non sono un trofeo da vincere»: di giornaliste videoludiche, questioni di genere ed endorsement (assolutamente non richiesti)
È dal 2007 che scrivo di videogiochi. Ho iniziato principalmente per passione, buttando giù qualche pezzo per una piccola community dedicata a Nintendo Wii (Wiitalia), dove a nessuno fregava se avessi o meno le tette. Scrivevo e basta. Avevo qualche lettore affezionato, qualche detrattore, ma il mio essere donna non è mai stato né un problema né un merito. Nel frattempo, altre ragazze (poche, a dire la verità) scrivevano di videogiochi con lo stesso modus operandi: passione, talvolta racimolando qualche spicciolo tra news o recensioni, e poco altro. Insomma, seppur in numero ridotto, ci siamo sempre state. Esattamente come il pubblico delle videogiocatrici: ci siamo sempre state, abbiamo sempre giocato, con la differenza che non abbiamo mai sentito la necessità di dover fare proclami, ricordando al mondo che, seppur vagino-dotate, avevamo comunque pollici opponibili che ci permettevano di stringere un controller tra le mani.
E giocare.
Poi, non so quando sia successo di preciso (o forse sì, ma imputare tutto al #GamerGate sarebbe ingiusto), quelle donne che scrivevano di videogiochi sono diventate all’improvviso dei bersagli. Bersagli per insulti, bersagli per commenti truci (ho perso il conto del numero di “troie” che ho letto in giro negli anni), bersagli di veri e propri raid. Il nostro status femminile ha iniziato ad essere un problema perché, a detta di una fetta di utenza, «incapaci» a giocare e, di conseguenza, a scriverne. La storia continua ancora oggi, anche se in forma più ridotta (ma più violenta, va detto); i commenti continuano ad essere vomitevoli e immotivatamente offensivi e se un tempo molte di noi hanno lasciato correre, oggi la strada che si è scelto di intraprendere è quella di rispondere a tono. Esasperate dall’ennesimo giudizio non richiesto o messaggino su Messenger, a cui se non rispondi immediatamente viene additata come «stronza» o «cesso» (tratto da una storia vera, anche se non mia), le giornaliste e redattrici videoludiche hanno deciso di mettere in stand-by l’indifferenza e intervenire a gamba tesa. E questo non solo per rispetto della nostra persona e della nostra professione, ma anche per rendere il settore un luogo sereno e navigabile anche per le redattrici che verranno dopo di noi.
Siamo in grado di salvarci da sole. Grazie.
Se da un lato il numero di colleghe sta crescendo, dando anche spazio ad articoli che riflettono sulla rappresentazione femminile nei videogiochi e/o ad approfondimenti che ruotano attorno a temi importanti come l’inclusività e questioni di genere, nel frattempo ha iniziato a prendere forma un altro fenomeno, probabilmente più fastidioso e non meno dannoso rispetto a quello dell’utenza tossica.
Quello dell’endorsement dei colleghi uomini.
Ad un certo punto, qualcuno (uomo) ha deciso chi fosse più meritevole rispetto ad altre di essere letta, di diventare voce autorevole, di diventare penna da contendersi e a cui affidare approfondimenti. Si è scatenata la caccia alla token girl, a quella che – sempre a detta di un uomo – fosse degna di essere condivisa sui canali social. Ancora una volta, uomini che decidono, uomini che mettono una donna sul piedistallo perché venisse apprezzata, perché, ancora una volta, l’hanno selezionata loro – manco fossimo un taglio di carne pregiata – e perché, di conseguenza, devono prendersi un merito che a loro non è dovuto. Un po’ come Pippo Baudo, no? Per dire: «L’ho inventata io, l’ho inventata».
Vi do questa spiacevole notizia: No, cari, voi non avete inventato un cazzo. E se essere condivisa dai colleghi (tutti) per un pezzo è pur sempre motivo di orgoglio, molto spesso è facile leggerci della strumentalizzazione. Non in tutti i casi, sia ben chiaro, perché c’è sempre modo e modo di condividere un pezzo. E il modo sbagliato è quando, spesso in modo inconsapevole, si legittima un articolo/pezzo/approfondimento apponendo il proprio «sigillo di garanzia» in fase di condivisione, talvolta facendo passare il messaggio (lo ripeto ancora, in modo inconsapevole) che, in fin dei conti, quel lavoro merita di essere letto perché è un uomo ad averlo scovato e ad averlo deciso.
Fateci caso.
Ci siamo passate un po’ tutte e, un po’ come le mode, andiamo e veniamo. Per qualche mese ce ne sarà una, qualche dopo un’altra e un’altra ancora. Sembriamo come il prezzemolo. Ma sempre perché a deciderlo è un uomo. E non si discutono le buone intenzioni (l’educazione, la tua foto profilo “Buongiorno” e “Buonasera”…ops), sia chiaro, ma mi piacerebbe che passasse un messaggio importante: Non siamo una tendenza.
Se siamo qui (e mi permetto di usare il plurale), è solo perché noi ci siamo messe in gioco, noi abbiamo scritto, noi abbiamo prodotto, noi, ancora una volta, abbiamo fatto in modo che questo settore diventasse a poco a poco più inclusivo. Non dobbiamo dire grazie a nessuno, se non a noi stesse che ci siamo ritagliate uno spazio in questo mondo lavorando sodo.
Smettetela di parlare per conto nostro, ecco. Preferisco di gran lunga una critica costruttiva ad un articolo che diventare una quota rosa perché una redazione ha deciso, di punto in bianco, di essere inclusiva. Siamo ancora a questo punto, davvero?
Per eliminare una volta per tutte le barriere in questo settore è non far pesare l’eccezionalità del nostro lavoro, dell’essere giornaliste videoludiche. Perché non siamo animali in via d’estinzione e non abbiamo bisogno di essere protette. E soprattutto, se siamo qui (e siamo sempre più numerose, lo ripeto), è perché, forse, abbiamo un valore. Proprio come i nostri colleghi, di cui – e qui parlo in prima persona – condivido sempre l’operato e mai la persona. Alla firma, il più delle volte, manco ci bado.
E questo valore non l’ha deciso qualcuno.
Sono i nostri articoli a parlare per noi, nel bene o nel male. Che piaccia o no.